Nina

di Majo

Nina di Majo

Libri

Saggi e dialoghi sul cinema

Intervista a Nina di Majo

Il suo cinema dimostra una specifica attenzione verso altre arti e altri linguaggi. Autunno e L'inverno presentano in particolare molti richiami di tipo letterario. Qual'è il suo rapporto con la scrittura e con i libri?

Il mio è un cinema di parola, molto legato alla letteratura in genere, ma anche alla letteratura teatrale. Sin dall'infanzia ho coltivato la passione per la lettura e per la scrittura; potrei forse dire di essermi addirittura rifugiata nei libri. I miei amici immaginari, di carta e inchiostro, così magici; profondi, ricchi di sfumature, gli abitanti dei libri o le loro ombre, hanno avuto da subito la meglio su quelli in carne e ossa. I personaggi ín cerca d'autore fuoriusciti dai romanzi si sono andati a fondere con le emanazioni della mia immaginazione, generando nuove figure: i protagonisti dei miei film. Prima del cinema, quindi, c'è nel mio percorso formai ivo e creativo la letteratura. Penso a Dostoevskij, Pinter, Strindberg, Ibsen, Cechov, Bernardt; ma penso anche al cinema di Ingmar Bergman, a quèllo dí Woody Allen, intriso di letteratura e humor ebraici e di dialettica talmudica, o ancora al cinema di Rohmer, così mozartiano da sembrare nei dialoghi un Da Ponte dei nostri tempi, misto a Molière e a Marivaux. Insomma, alla base delle sceneggiature che ho scritto è strutturale il riferimento letterario, la letteratura.

Anche le arti figurative hanno un peso non secondario nel suo cinema. Ha filmato Anish Kapoor, un personaggio de L'inverno scolpisce busti, ha proposto una gallerista come protagonista del film. Quant'è importante per lei la dimensione pittorica dell'immagine?

Qui subentra il vero specifico del cinema, l'immagine pura; più precisamente l'immagine in movimento che verrà poi montata. Questo è il linguaggio che ho scelto. Chi fa cinema racconta per immagini è non può prescindere dal rapporto con la pittura, con l'iconografia in generale, con il colore e con la luce, oltre che dal misurarsi con le potenzialità espressive della pellicola e delle nuove tecnologie digitali. Per Autunno, insieme a Cesare Accetta, direttore della fotografia, abbiamo deciso di prendere come riferimento la luce calda della pittura fiamminga, penso a Rembrandt e a Vermeer. Per L'inverno invece avevo come modelli Bacon e Munch, soprattutto per le distorsioni, le scie di colore, l'espressività simbolica del quasi disturbo emotivo e percettivo, ma anche un certo espressionismo tedesco. Il cinema è una sintesi di vari linguaggi, ecco perché è impossibile che il fotogramma non sia di per sé citazione di altre forme d'arte. è citazione ma è anche emancipazione dalla stessa, cita qualcosa ma allo stesso tempo se ne differenzia, superandola, diventando altro. In tal senso il fotogramma può essere memoria e futuro di tutto ciò che cita, che lo ha preceduto. Chiunque si trovi a comporre un'immagine si relaziona con le arti figurativé: i corpi degli attori sono scolpiti nello spazio, ma possono essere anche immagini pure, quasi bidimensionali, segni, silhouette, scie di colore, come nei quadri.

Il suo mi sembra un cinema interattivo: letteratura, arti figurative, teatro, ma anche musica. La colonna sonora de L'inverno è prodotta dai Frame. Com'è nato questo progetto musicale? Ha una ragione artistica precisa?

Con i Frame (Davide Mastropaolo e Leandro Sorrentino) abbiamo deciso di lavorare alla colonna sonora de L'inverno in modo diverso da come avevamo fatto per Autunno, dove la partitura si strutturava come musica per lo più acustica con funzionalità extradiegetica, cioè musica che fa da contrappunto o da commento alle immagini del film. Ne L'inverno invece la partitura è stata concepita come sonorizzazione vera e propria degli ambienti scenici, che poi si fa musica, per lo più attraverso strumenti digitali. Abbiamo voluto creare una sorta di tappeto sonoro che potesse restituire l'aria che si respira nel film, l'eco dell'anima dei personaggi. I Frame hanno campionato tutti i suoni, inclusi i rumori, degli ambienti: penso all'acqua del fiume Aniene, al nastro trasportatore dell'ex lanificio-loft di Leo e Marta (Fabrizio Gifuni e Valeria Bruni Tedeschi) ai rumori dei cancelli di ferro del container in cui si svolge la festa con l'editore, all'abbaiare in lontananza di un cane, agli uccelli che volano bassi sul corso del fiume. Dopo il campionamento, hanno rielaborato i suoni attraverso dei software, trasformandoli. A volte sono diventati basi ritmiche, a volte spunto, "note" per vere e proprie armonie, ovviamente orchestrati, cioè montati insieme a strumenti come il sassofono sint, il piano, le tastiere, gli archi e, soprattutto, ai campionamenti vari. In alcune scene, ad esempio, ho avuto l'esigenza di suggerire una sorta di disagio audio, quasi un'irrequietezza, presenze psicologiche nascoste e striscianti; così ci è venuto ín mente di inserire nel tappeto sonoro dell'ambiente respiri impercettibili e passi lontani. In altri punti abbiamo invece lavorato sulle frequenze: ora bassissime, ora alte, utilizzando il potenziale che esse hanno di interagire sul piano sensoriale con gli organi del corpo umano, a livello sinestetico. Mi spiego: alcune frequenze vanno dritte alla pancia, altre risuonano nella cassa toracica. Insomma, abbiamo utilizzato il suono come elemento perturbante percettivo prima che come musica così com'è intesa tradizionalmente. In questo caso la colonna sonora è diventata parte assolutamente integrante del fotogramma a livello narrativo, assumendo una funzione intradiegetica.

Ho notato che nei suoi film la dimensione intertestuale è molto forte. Ci sono riferimenti, richiami spesso precisi: Hitchcock (La finestra sul cortile), ilRohmer dei Contes, Woody Allen, Nanni Moretti, Antonioni. Si riconosce in questi nomi? Quali sono i suoi modelli e' che rapporto ha con essi?

I registi che lei ha appena menzionato sono sicuramente gli autori che amo, ma ce ne sono poi tanti altri. Come le dicevo c'è Bergman, Orson Welles, Bufiuel, Godard, Resnais, Bresson, Lubitsch. A volte nei miei film ho giocato a fare piccoli omaggi ai maestri della mia vita, vere e proprie citazioni, ma spesso poi è il critico, lo studioso, che cerca a tutti i costi di trovare, e trova, riferimenti a cui l'artista, il regista, non ha pensato girando.

In che modo nasce un suo film?

Un mio film nasce di solito da un disagio, da una sorta di aporia, da un nodo, da un'emozione forte inespressa o che non riesco ad afferrare. Questo il primo punto da cui si muove tutto. Intorno a questo nodo emotivo iniziano a materializzarsi nella mia testa personaggi erranti, che chiacchierano, si affannano, giocano, s'innamorano. Li vedo camminare, muoversi. Li immagino già come in stralci di film montati che però non si uniscono, brandelli di esistenze filmiche. Partendo da questi amici che mi pongono una serie di domande costruisco la narrazione del film, tentando di strutturare il film stesso intorno a un tema: i rapporti umani, la famiglia, la coppia, la ricerca di un'identità. Insieme alle relazioni umane mi interessano i contesti che generano le relazioni e quindi i tic, le deviazioni tragicomiche. Soprattutto m'interessa raccontare una certa borghesia intellettuale, verso la quale ho empatia, ma che reputo chiusa e autoreferenziale, cerco di ritrarla con ironia, con un punto di vista pungente e critico, ma sempre con amore per i personaggi.

Lei considera il film un prodotto individuale o di gruppo? In pratica le pellicole da lei dirette sono film di Nina di Majo realizzati grazie all'aiuto di un gruppo di tecnici, oppure sono film di un équipe tra cui Nina di Majo?

Credo che i film siano innanzitutto espressione del regista, raccontano tutto di lui o di lei, particolarmente nel caso del cinema d'autore, e molto meno nel caso di pellicole girate da ottimi professionisti per commissione, magari di genere, o tratte da un romanzo. In quel caso il film è forse di tutti, più che espressione di una poetica del regista. Nel cinema in genere, però, la dimensione collettiva è fondamentale. Tutti i collaboratori sono interpreti e, in quanto tali, oltre a mettere a servizio del regista le loro competenze tecniche, da semplici esecutori, danno un forte personale contributo artistico, propongono a volte vie alternative per il raggiungimento di quell'immagine, di quella scena che il regista si è prefisso di realizzare. Sono poi convinta che oltre all'intervento creativo dei tecnici e dei capireparto — direttori della fotografia, scenografi, costumisti, montatori, fonici, musicisti — anche la partecipazione emotiva o ideale della troupe sia importantissima, e credo anche che una buona coesione nel lavoro, un impegno ideale e partecipativo alla macchina filmica sia in grado di "impressionare" la pellicola. è come se la macchina da presa assorbisse ciò che di buono e d'intenso c'è stato nella collaborazione fra i componenti della troupe e lo restituisse nel film.

In Autunno ho notato che c'è un forte gioco di coincidenze mancate: più volte Costanza e Marco, i due protagonisti, si incrociano senza conoscersi mai. Al contrario ne L'inverno Valeria Colino crea una coincidenza fasulla: segue Leo e finge di incontrarlo per caso in una libreria. C'è anche una sorta di ponte intertestuale tra i due film: proprio nell'episodio della libreria appare casualmente Matteo, il protagonista del primo film.

Qual è il suo rapporto, per citare Calvino, con i destini incrociati delle persone, con le coincidenze, con gli incontri che possono o non possono avvenire?

Vorrei che nei miei film le stagioni fossero segnate da un elemento forte di continuità. Autunno, L'inverno, Primavera sono iperluoghi popolati da un mondo di personaggi reali e immaginari che fanno parte di un girotondo unico, come legati da un filo rosso e da sorti incrociate. Costanza, Nina, Matteo, Marcomario, Betta, Anna, Marta, Leo sono personaggi in cerca d'amore, di lavoro, identità, di futuro, passato, dell'origine, di una speranza, e tutti i loro movimenti sono costellati di coincidenze, sfasamenti, dilatazioni, sincronie, ritardi. Il caso può fare incrociare o perdere le chance della vita; e a noi è dato di scegliere fino a un certo punto.

Come dirige í suoi attori? In particolare come si è posta nella direzione di attori che fanno cm ema da molti anni più di lei? Penso a Valeria Colino o Valeria Bruni Tedeschi...

Con le Valerie mi sono posta in maniera molto normale, direi. Quando lavoro ho chiarissimo quello che voglio ottenere, so come parlano i personaggi, come si muovono e cosa pensano, cerco quindi di raggiungere il mio obiettivo con una precisione e una concentrazione ossessiva. Per gli attori credo sia confortante affidarsi a indicazioni chiare e precise. Ovviamente, però, l'attore che interpreta il personaggio lo arricchisce dí nuove caratteristiche e di nuovi colori. è per questo che alle volte può essere interessante lasciare che si lavori anche attraverso l'improvvisazione su "partitura", integrando i dialoghi sceneggiati con le performance dell'attore: in alcuni casi possono essere provvidenziali, in altri no, sporcano, diluiscono, sono pleonasmi, che depauperano. Quando un ciack è recitato in maniera particolarmente potente, emozionante o forte, lo si percepisce subito, e non conta affatto che le battute siano precisamente identiche a quelle della sceneggiatura. Soprattutto nei film che sí fondano molto sulla recitazione e che raccontano di relazioni umane, come i miei, gli attori hanno lo spazio per grandi "arie", quasi dei veri e propri monologhi all'interno dei dialoghi, come, per intenderci, arie di cantanti d'opera. In questi monologhi dialoganti i personaggiattori esprimono i loro sentimenti. Nel momento del ciack i sentimenti agiti dagli attori diventano reali e provocano reazioni a catena imprevedibili, così i dialoghi cambiano e si arricchiscono di vita vera, in un meccanismo non lontano dallo psicodramma. L'ideale per il lavoro con gli attori sarebbe avere la possibilità di provare molto, e questo è quello che cerco di fare: una volta impostate le caratteristiche fisiche del personaggio, la gestualità, le somatizzazioni, il look, si inizia a provare e riprovare scena per scena, inquadratura per inquadratura. Purtroppo il tempo è sempre poco e difficilmente un giovane regista in Italia ha la possibilità di pagare gli attori per provare in preparazione, prima che siano partite le riprese. Per cui c'è poco di che star contenti. In ogni caso credo che quando si lavora non importa la quantità degli anni di lavoro che hai alle spalle ma la qualità delle idee e del metodo, la precisione del "tocco", la chiarezza nella realizzazione, oltre che naturalmente l'intuito e la creatività.

Quanta influenza c'è nel suo lavoro di regia dell'esperienza teatrale?

Direi pochissima, sono stata assistente a diciassette e diciotto anni in alcuni spettacoli teatrali, di cui un'opera, La Traviata, per la regia di Sandro Segui che purtroppo è ora scomparso. Forse è da quella esperienza operistica che sono stata più colpita. Prima di tutto perché amo la musica classica e l'opera in particolare, il melodramma, poi per l'aspetto titanico e mastodontico di quel tipo di messa in scena, che ricorda un po' la macchina del cinema. Ma al teatro ho lavorato veramente pochissimo, la mia esperienza è cinematografica.

La modernità che disegna nei suoi film è una città postindú striale, postmoderna, come la Roma de L'inverno, in cui gli interni hanno qualcosa di claustrofobico, di artificiale, quasi fossero delle scenografie teatrali. Anche la Napoli di Autunno ha una dimensione rarefatta, priva di sole, diversa. Ci parla del suo lavoro sugli ambienti?

In Autunno quello che mi interessava raccontare era una Napoli borghese, europea, sofisticata, formale, fredda, "imbalsamata". Volevo in qualche modo uscire da quei cliché sulla città dei vicoli, dei miracoli, costellata di panni stesi e pulcinelli che mangiano spaghetti. Volevo raccontare un'altra faccia della città, quella che si vede meno, ma che è una grande parte, e che io conosco meglio. Partendo da questo presupposto, ho dovuto poi trovare le location praticamente da sola e gratis (...ho firmato la scenografia, infatti). Avevamo pochissimi soldi per il film, per cui ho girato per lo più in case di amici e conoscenti. La dimensione claustrofobica a cui allude mi appartiene in assolutoe traspare nel mio modo di lavorare, la racconto. Per L'inverno, invece, il tentativo è stato quello di cercare un linguaggio scenografico attraverso un'espressività simbolica ed evocativa. La città che volevo raccontare non era una città reale, esistente, quotidiana, ma un luogo emotivo, una città dell'anima.

All'inizio avrei voluto girare a Milano, pensavo ai paesaggi industriali di Sironi, e a una città paludosa e lacustre, postindustriale e fredda. Per ragioni produttive non è stato possibile ambientare il film lì (costava troppo...), così ho tentato di ricreare l'emozione che quella città mi provocava: un'impasse dell'anima ghiacciata, in bilico tra modernità sfrenata e mancanza di futuro, che tormenta i prot agonisti e che in quel momento tormentava anche me. Per queste ragioni insieme a Gianni Silvestri, lo scenografo abbiamo iniziato la costruzione di questa città i ritagliando e ricostruendo prospettive romane.

La casa dei protagonisti Leo (Fabrizio Gífuní) e Marta (Valeria Bruni Tedeschi) l'abbiamo interamente ricostruita in un ex lanificio, un edificio industriale degli anni Quaranta adagiato sull'Aniene, affluente del Tevere, a Pietralata, un quartiere periferico di Roma. Nello stesso edificio è situata la galleria d'arte della protagonista, Marta. Ho immaginato che l'archeologia industriale, come avviene per esempio a Berlino e nel Nord Europa, fosse stata ripopolata e rivitalizzata, da artisti e intellettuali. Ho voluto suggerire, con dolly e panoramiche, la presenza inquietante di un corso d'acqua putrida un finmiciattolo tetro, quasi una palude, un'acqua che scorre ma non a sufficienza, una vita non vita, una vita che non riesce a rigenerarsi (il contrario del "panta rei" eracliteo). Altre location sono nella zona del porto fluviale e del gasometro, quasi un tributo "stravolto" — al grande maestro Pier Paolo Pasolini.

All'immagine propria della modernità nuova della zona del porto fluviale raccontata da Pasolini — quella periferia urbana che aveva preso il posto di un territorio ancora fortemente legato al mondo contadino, e che ormai è divenuto archeologia industriale — ho voluto aggiungere i luoghi della metropoli contemporanea, i raccordi, le tangenziali, i parcheggi a spirale, le pompe di benzina, i container, tutti segni urbani che suggeriscono una dimensione "disintegrata" del rapporto dell'individuo con lo spazio urbano. Spazio ormai mostruoso, disumano, la città si trasforma in una grande highway attraverso la quale si passa, una città autostrada che si attraversa solamente e dove ci si ferma solo per comprare e consumare, non mai per sostare e socializzare. Insomma, la città del terzo millennio, il grande centro commerciale dentro cui l'individuo è solo un consumatore senz'anima e per il resto tutto è rarefazione emotiva.

Per quanto riguarda la fotografia e soprattutto i colori della fotografia, ci sono delle luminosità che preferisce utilizzare?

Credo che ogni storia e ogni film abbia il suo colore, le sue luci e le sue ombre. Non ce n'è una in particolare che preferisco. In Autunno, ad esempio, era dominante il giallo, ne L'inverno il blu. Primavera? Vedrete.

Lei ha lavorato anche a inchieste (Napoli e le donne) e video non fiction. Preferisce il cinema di finzione, narrativo, o il cinema documentario? Come cambia il suo lavoro nei due casi?

Mi piace molto la videoarte, meno l'inchiesta, ma se politica, se può incidere o rendere visibile realtà sommerse, allora mi interessa. Mi piace documentare la creazione di opere d'arte, penso al filmato che ho fatto su "Marsyas" di Anish Kapoor, alla Tate Modem, immensa scultura (150 m) installata nella Turbine Hall. La creazione mi appassiona. Un altro campo in cui mi piace sperimentare è il rapporto tra immagini e suono: insieme ai Frame abbiamo creato una performance audiovisiva, AFO 4, presentata al RomaEuropa Festival, e distribuita poi in CD e DVD in circuiti internazionali, nella quale ho tentato di fare la "colonna visiva" della loro musica, invertendo, per una volta, il rapporto di interdipendenza all'interno del nostro gruppo. Con la videocamera digitale per me è più facile sperimentare "nuove visioni", essendo in prima persona dietro l'obiettivo.

Perché ha deciso di pubblicare la sceneggiatura del suo film (L'inverno, L'Ancora del Mediterraneo, 2002)? Secondo lei ha una vita autonoma, come genere, dissociata dal film?

In realtà me l'hanno proposto, hanno trovato che vi fosse un alto specifico letterario ( ...non per tornare al solito punto!). Così abbiamo deciso di pubblicarla, anche con le fotografie di scena di Alessia Bulgari. Con l'editore De Matteis (L'Ancora del Mediterraneo) abbiamo a lungo ragionato sulla nuova forma da dare allo script affinché avesse una propria autonomia letteraria. Abbiamo pensato così a una sorta di raccontosceneggiatura, un genere che abbiamo immaginato insieme. Per dare un'idea del testo: non c'è la divisione per scene, ambienti, luce, mentre invece c'è quella per capitoli. Le emozioni e i pensieri dei personaggi vengono raccontati, cosa che in sceneggiatura non accade perché devono essere drammatizzati attraverso i gesti e le azioni, così come tutte le altre indicazioni tecniche del film sono omesse a favore di descrizioni emotivointeriori.