L’inverno
Introduzione di Goffredo Fofi
Qual è il peccato imperdonabile di Nina di Majo nel panorama del cinema italiano di oggi, quello che, per esempio, ha convinto la commissione di selezione dell'ultimo festival veneziano e il suo direttore a escluderla da ogni ufficialità?
Né più né meno che cercare con tutte le sue forze di giovane e testarda artista di avere uno stile, di imprimere al film il marchio di una personalità e la persuasione di una scelta.
La "normalizzazione" del nostro cinema, tra modelli televisivi e oppressione statunitense, sembra lasciar spazio solo a una "qualità europea" — che in Italia è peraltro più difficile da raggiungere che altrove —, che privilegia sempre e comunque la comunicazione, l'accettazione delle regole del gioco commerciale prese in considerazione da quella "famiglia" del cinema che comprende dai produttori giù fino ai critici, passando per le mediocri "testoline", legate a questo o quel carro e corporazione, chiamate a decidere dai governi in carica chi deve essere finanziato dallo Stato e chi no.
E a loro difesa possiamo solo dire che, in giro, le "testoline" non mediocri sono assai rare, nella sinistra come nella destra.
La loro approvazione e disapprovazione, fondamentale per esempio per l'esordio di un giovane regista, è dettata anzitutto dalla chiarezza della narrazione, dal rispetto (disastro del concetto di sceneggiatura di ferro sovieto-hollywoodiano!) di presunte regole della narrazione cinematografica dettate dai mercanti del cinema e accettate dagli autori per il tramite, appunto, degli sceneggiatori, una categoria quanto mai servile nel sistema cinematografico italiano.
Bisogna "comunicare" secondo le leggi delle "comunicazioni di massa", secondo i gusti della maggioranza, secondo i pareri dei grandi mediatori, mediatici e mediocri.
La medietà si è fatta norma, e a essa hanno finito per soggiacere, nel cinema italiano, anche autori ambiziosi, stanchi di non piacere al "grande pubblico medio".
Per un Amelio, ma anche per un Citti, per un Maderna, per un Marra, per un Garrone, per qualcun altro ancora dei giovani più arditi che giocano un loro gioco nel quadro della normalità di un sistema — e non parlo dunque di chi se ne pone per scelta ai margini, come Ciprì e Maresco, continuatori della rara specie dei Bene e di tutti coloro che non hanno accettato la "vecchiaia precoce del cinema" come forma d'arte eminentemente poetica e sperimentale —, ecco la schiera sterminata dei prosastici "narratori" da manualetto, che si autocensurano, o che hanno accettato le "leggi" care ai produttori e ai loro sceneggiatori (e consulenti per le sceneggiature) e ai "giudici statali" delle sceneggiature sulla cui sola base, e non su quella di piccole opere già realizzate, si decide se un'opera dovrà venire alla vita.
Nina di Majo scrive i film da sé, e sono già due, realizzati contro venti e maree con un'ammirevole testardaggine, e se le sue sceneggiature non sono perfette, tanto peggio per gli sceneggiatori "perfetti".
I suoi film respirano, hanno personalità, impongono una "visione", sanno dire ciò che vogliono dire, e ciò che vogliono dire è molto significativo e importante.
Quanti registi può vantare il nostro cinema che possano rispondere a questo ritratto? Ella non mente la sua origine, non si camuffa da qualcuna che, non è per entrare nel gusto di un pubblico sempre più "populisticamente" corrotto, dà un'immagine di sé che le hanno attribuito il cinema e la televisione e che essa ha fatto sua, anche se riguardava solo una sua parte e dei suoi aspetti, accettandone la monodimensione di totalità, l'avvilente ipocrita imbecillità. L'immagine della borghesia che i film di Nina di Majo propongono, non è certo compiaciuta.
I suoi giovani e i suoi adulti, i suoi professionisti e i suoi intellettuali, non sono quelli che disegnano i professionisti intellettuali della nostra letteratura e soprattutto del nostro giornalismo (e di essi, peraltro, il cinema quasi non parla), perso nel suo trionfale delirio piccoloborghese, dentro il ceto maggioritario e quasi assoluto del nostro tempo.
Parlando d'altri tempi e ceti, un grande scrittore come Bilenchi intitolava la conclusione della sua trilogia sull'apprendistato alla vita Il gelo.
I film di Nina di Majo danno la stessa sensazione e vedono i loro personaggi come soffocati da una ritualità quotidiana che, quando essi si fermano per eccesso di sensibilità o per "una botta in testa" a pensarci, fa loro orrore per la sua assenza di senso e per la solitudine in cui non può non stringere chi ha i nervi più scoperti, chi ha ancora la capacità di farsene, come le piante dall'afa e dal freddo, "irritare".
Nervi a fior di pelle hanno Marta, Leo e Anna, i protagonisti de L'inverno a cui, anche per forza di regia, hanno dato corpo e anima con straordinaria intelligenza Valeria Golino (Anna), Fabrizio Gifuni (Leo) e una sorprendente Valeria Bruni Tedeschi (Marta) (e il rapporto tra le due donne e interpreti chiama alla memoria, e non è dir poco, certi duetti d'attrici del cinema classico), e la cupezza di una situazione, ancorché di privilegio, finisce per portare a incandescenza le tensioni e le sofferenze, mai disancorate dalla realtà circostante.
Anche se di essa ci viene detto poco, noi la conosciamo e ne facciamo parte, e possiamo dunque commisurare la gravità e la gratuità del dolore dei tre protagonisti.
Ma così va il nostro cinema: non si deve parlare del dolore che ci appartiene, del disagio avvertito da molti di vivere in queste zone della storia e della geografia... Si impongono le mediazioni: il "cinema di qualità", la consolazione finale...
E Nina di Majo invece le nega, pervicacemente cercando una sua cifra di lettura per questa parte di società e di mondo, e refrattaria alle consolazioni, e a maggior ragione a farsi lei elargitrice di consolazioni, consolatrice fasulla tra un milione di consolatori fasulli da cui la nostra quotidianità è quotidianamente afflitta. Non è senza "sbagli", L'inverno — per l'appunto, di sceneggiatura.
Ma chi se ne importa? Ha ben altri pregi da rivendicare. Ha uno stile, ha una tensione e una verità che senza quello stile non riuscirebbero a toccarci.
Non ci sono melodramma, né commedia, né denuncia in L'inverno, bensì la constatazione di una condizione che alcune non dimenticate Maestre avrebbero detto di "irrealtà".
Il suo film fa pensare a certi lontani (storicamente) film di Antonioni, a certi lontani (geograficamente) film di Tsai Ming-liang per rigore di linguaggio e per durezza di sguardo. è un film che non compiace e non si compiace, film di vero autore: di un'autrice giovane, lucida, dotatissima, che sa quello che vuole, che non è disposta a farsi ricattare da nessuno e tanto meno dal conformismo accettato e propagandato dal cinema italiano di questi anni di gelo.
Goffredo Fofi